Capaci (PA) – Intervento di Mons. Michele Pennisi, all’incontro promosso dal Comune di Capaci sui XXX anni dalle stragi di mafia.
Capaci, 23 maggio 2022.
«Il mio approccio al fenomeno della mafia è iniziato per motivi di studio in preparazione alla mia tesi di dottorato su don Luigi Sturzo e il movimento cattolico sociale sotto la guida del gesuita p. Giacomo Martina e del prof. Gabriele De Rosa.
Nei rapporti fra Chiesa e mafie possiamo distinguere diversi periodi: si è passati:
(1) da un primo periodo in cui dominava la critica e il contrasto alla mafia da parte Movimento cattolico-sociale di stampo intransigente che si opponeva allo Stato liberale tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento;
(2 a un secondo periodo che va dall’avvento del fascismo fino ai primi decenni del secondo dopoguerra in cui si è affievolito fino ad un quasi totale esaurimento l’impegno contro la mafia;
(3) per arrivare ad un terzo periodo nel quale, anche per l’impulso del Cardinale Salvatore Pappalardo e di altri vescovi e di vari centri culturali e riviste e soprattutto di Giovanni Paolo II ed ora di papa Francesco l’episcopato siciliano avrebbe caratterizzato l’opposizione alla mafia a partire da categorie evangeliche.
L’impostazione critica di Sturzo contro la presenza della criminalità mafiosa e delle sue connivenze con i mondi dell’economia, dell’amministrazione e della politica emerge, in un articolo pubblicato il 21 gennaio 1900 sul periodico “La Croce di Costantino” intitolato “Mafia”, in occasione del caso Notarbartolo. Scrive della mafia, che stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; di quella mafia che oggi serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini, creduti fior d’onestà, ad atti disonoranti e violenti ”.
Nell’anno della sua morte confidò ad un amico: “povera Sicilia mia, povera Italia: ora la mafia diventerà più crudele, e dalla Sicilia risalirà l’intera penisola per risalire forse oltre le Alpi”.
Certo non tutti i cattolici e i preti sono stati così attenti come Sturzo a contrastare il fenomeno mafioso e ci sono stati prelati, sacerdoti e laici che sono stati conniventi con la mafia.
La maggior parte dei vescovi, fra cui il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini tendevano a minimizzarne la gravità e la specificità del fenomeno mafioso riducendolo a delinquenza comune.
La Chiesa siciliana, di fronte alla mafia, nei primi decenni del secondo dopoguerra ha trovato difficoltà ad elaborare una risposta che superasse il livello dell’etica civile, del comune rimando alla giustizia e alla condanna della violenza che stanno alla base di una società ordinata. È ovvio che questo piano è assolutamente necessario, ma dovrebbe essere altresì ovvio per il cristiano che esso resta insufficiente, perché esso non lascia emergere ancora l’originalità del messaggio evangelico.
Con gli anni settanta gli interventi sulla mafia dei vescovi siciliani, sotto la guida del card. Salvatore Pappalardo arcivescovo di Palermo e presidente della Conferenza Episcopale siciliana, diventano più frequenti. In seguito all’acuirsi della violenza di stampo mafioso con l’assassinio del generale Carlo Alberto Della Chiesa, della moglie e dell’agente di scorta il 3 settembre 1982, con la storica omelia “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”.
Il magistero di papa Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Papa Francesco ha contribuito alla interpretazione e alla condanna della mafia a partire dalle tradizionali e originali categorie cristiane. Giovanni Paolo II nel 1991 ai Vescovi siciliani diceva che la piaga della mafia ”rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della chiesa. Giacché mina dall’interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano”. Si incominciò a prendere coscienza che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale.
Gli interventi pontifici hanno avuto un indubbio influsso nei pronunciamenti di condanna delle mafie pronunciati da vari episcopati delle Chiese meridionali, dalla CEI nel documento” Per un paese solidale: Chiesa italiana e mezzogiorno” del 2010 e avranno un influsso nel giudizio che in futuro i cristiani avranno nei confronti degli appartenenti alle varie mafie.
Falcone come Borsellino e tanti altri ci hanno testimoniato cosa significa vivere per la legalità e la giustizia, compiendo il proprio dovere orientati al bene comune.
La loro testimonianza è stata quella di uomini di speranza che attraverso il loro impegno quotidiano e il dono della vita hanno dimostrato che è possibile lottare e sconfiggere la mafia, che è un fenomeno umano e non un fato inevitabile.
Dopo gli assassini di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino e gli “angeli custodi” che li scortavano. Si moltiplicano gli interventi dei Vescovi di condanna alla mafia.
Negli ultimi decenni in seguito anche al grave e ripetuto manifestarsi dell’esclusiva natura criminale e dell’estrema pericolosità sociale dell’organizzazione mafiosa e, conseguentemente, al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno, è maturata nella Chiesa siciliana una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana: il mafioso, in forza della stessa appartenenza alla cosca dedita strutturalmente al crimine, si pone oggettivamente fuori della comunione ecclesiale.
Una novità è emersa dalle parole pronunciate da Papa Francesco a Sibari il 21 giugno 2014; c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso con la commissione individuale di determinati atti criminali tipici della mafia, ma anche la stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: «… Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati…».
Papa Francesco afferma che condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica, perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che prende il posto dell’adorazione per il Signore. Il Papa coinvolge nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta sia la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza.
Bisogna analizzare poi criticamente il fatto che, spesso, vari mafiosi si ritengono membri della Chiesa a pieno titolo, nient’affatto fuori della sua comunione, nonostante la loro appartenenza a quella “struttura di peccato” che è la cosca mafiosa.
A questa chiara coscienza di radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana e di conseguente rifiuto di ogni compromissione della comunità ecclesiale col fenomeno mafioso, la Chiesa non può non sentirsi legata. Tanto più che questo cammino storico della Chiesa siciliana è stato, per così dire, suggellato dalla splendida testimonianza del martirio del beato don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero e del beato Rosario Livatino, e tutti coloro che san Giovanni Paolo II ha definito martiri per la giustizia.
La Chiesa, particolarmente nella predicazione e negli interventi autorevoli, non può limitarsi alla denuncia del fenomeno mafioso, per la prevalente preoccupazione di parlare all’opinione pubblica, ma deve rivolgere il pressante appello e dare un vero aiuto alla conversione, facendo prevalere la preoccupazione di parlare alle coscienze.
La Chiesa non può non fare presenti le esigenze proprie della conversione cristiana e quindi non ricordare, anche ai mafiosi, che la conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione pubblica ed esige comunque la riparazione.
La lotta alla mafia passa, anche se non si esaurisce, attraverso un rinnovato impegno educativo e pastorale che porti ad un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti.
Tra i gesti concreti durante il mio episcopato prima a Piazza Armerina e poi a Monreale c’è stata la proibizione dei funerali per i mafiosi e la proibizione di fare da padrini per il battesimo e la cresima e a far parte delle confraternite a coloro che sono stati condannati per mafia. A Piazza Armerina ho incoraggiato delle cooperative a gestire beni confiscati alla mafia e in un fondo donato dalla famiglia Sturzo abbiamo avviato un progetto di recupero dei carcerati attraverso il lavoro, la cultura, la fede e il rapporto con le famiglie.
Prima della pandemia abbiamo organizzato delle marce per la legalità in alcuni comuni della diocesi di Monreale (Corleone, Partinico, Montelepre) ai quali hanno partecipato anche rappresentanti delle altre chiese cristiane e delle altre religioni.
Come membro di una Commissione vaticana sul contrasto alle mafie e alla corruzione ci stiamo adoperando perché il fenomeno mafioso sia conosciuto e condannato in tutto il mondo.
La lotta alla mafia passa, anche se non si esaurisce, attraverso un rinnovato impegno educativo e pastorale che porti ad un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti, ad una profonda “conversione” personale e comunitaria.
L’educazione alla legalità va coniugata con l’educazione alla socialità e ad una cittadinanza responsabile, nell’ambito di una educazione globale alla pace.
Non abbiamo bisogno di eroi ma di persone per le quali, come disse Giovanni Paolo II “il quotidiano diventi eroico, e l’eroico diventi quotidiano”.
La Chiesa sente di avere una sua responsabilità per la formazione di una diffusa coscienza civile di rifiuto del costume e della mentalità mafiosi e si impegna nell’opera educativa e formativa dei suoi fedeli e, più in generale, di quanti, anche non credenti, vengono a contatto con le strutture educative da essa condotte o animate. Essa non si sente estranea all’impegno, che è di tutta la società siciliana, di liberazione dalla triste piaga della mafia.
Nella lotta di liberazione dalle mafie c’è la necessità di una sinergia e di una vera e propria alleanza tra il mondo della giustizia, quello della cultura, dell’economia, del volontariato e dell’intera società civile in particolare delle scuole, dove valori civili e religiosi si fondono.
La cultura della giustizia e della legalità deve diventare patrimonio non soltanto della magistratura ma anche di tutta la comunità che ha il diritto alla verità favorendo le nuove prospettive della giustizia riparativa.
Alle comunità cristiane si richiedono dei gesti originali che interpellino cattolici e laici ad interrogarsi sulle modalità di una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso e di una lotta di liberazione dalle mafie come fenomeni collegati con l’idolatria del denaro e del potere» (Mons. Michele Pennisi).
Giuseppe Longo