Cefalù (Pa) – Mi è stato chiesto dal mio Amico Barracato di esprimere il mio pensiero su quest’ultima sua fatica letteraria, la ventesima, se non vado errato, “La casa dell’amore”.
Proposta che accolgo con piacere sia per la considerazione che nutro nei confronti del prefato mio sodale, sia anche perché il plot del libro mi riporta (a me che inesorabilmente senesco) verso una rimpianta giovanile dimensione sociale, ahimé obsoleta per l’incessante decorrer degli anni, che ha in un certo qual senso forgiato il mio ingredire in una maggiore consapevolezza della vita e delle sue più profonde pulsioni sentimentali.
E così, di buon grado, dopo aver attentamente vagliato il libro ed averne ponderato il senso, accendo il computer e dò la stura ai miei più leali pensieri in proposito.
In prima istanza mi vien da osservare che questo testo mi pare riecheggi, con i dovuti distinguo naturalmente, lo spirito di “Alla ricerca del tempo perduto” del su rimembrato Marcel.
Una riesumazione, insomma, di un particolare comportamento di costume che ha influenzato più di una generazione nostrana, portata alla luce con una composizione letteraria da inquadrare nell’ambito specifico della sua più appropriata qualificazione.
Ma c’è da chiedersi: è un semplice romanzo, un romance, un romanzero, un racconto, un’indagine, o che so io?
Oppure: ha, il testo, una caratteristica psicologica subliminale (certamente non epistolare), d’appendice, realista, sociale, di costume, libertina?
Sicuramente le ultime quattro ipotesi di questo secondo interrogativo sono quelle che più mi par s’addicano al contesto dell’opera che, nell’accezione culturale cefaludese (o cefalutana, che dir si voglia) rappresenta un elemento di rottura d’un silenzio sull’argomento durato, ahinoi, per più fiate.
Infatti, le vicende didascalicamente descritte con certosina accuratezza, i dialoghi spontanei e spesso licenziosi, a volte crudi nella naturalezza del rapporto, la concisivita’ del lessico, quasi una sceneggiatura alla Eisenstein o alla Pudovkin, dànno chiara contezza di un verismo subliminale che rifugge dagli ambagi di una velatura attutente soggetta a crismi di calcolata convenienza.
Il tabù di una volta concernente una prerogativa fisica di cui la natura ci ha dotato, sul sesso in generale e su quello mercificato alla luce del sole in quanto giuridicamente approvato e sostenuto dallo Stato in particolare, quel tabù che riteneva intollerabile, ineducato, inconcepibile, incivile, triviale, non formativo poterne anche il solo disquisire a viso aperto, concezione che opprimeva l’autonomìa della coscienza, che ledeva la libertà dell’individuo nella sua sfera più intimistica, il suo libero esistenziale arbitrio, oggi non ha più motivo di essere, di bloccare ab imis una rinnovata corrente di pensiero di primaria importanza in quanto di ineludibile essenzialità.
Il tabù s’è dissolto. Come nebbia al sole. Ha fatto il suo tempo. In tre parole: non esiste più.
O, meglio, non dovrebbe più esistere. Questo perché alcune sacche di resistenza nell’imo profondo di certe coscienze, moraleggianti, ancorate ad un atavico trascorso comportamentale, quantunque ormai fuori fase, resistono e, sommesse, contrastano ancora il pensiero moderno nel contesto che ha prodotto la mutazione dei costumi (“la resurrezion de la carne”, direbbe il Boccaccio) determinando un ampliamento conoscitivo nel modo di essere di una società più spregiudicata rispetto a quella preesistente.
Ed è qui che s’innesta l’interessante testo del Nostro dall’evocativo titolo sopra evidenziato e nel prosieguo ripetuto, consentendo delle plurime considerazioni inevitabili che scaturiscono dal tema trattato.
L’ipocrita pudicizia di una letteratura dei secoli scorsi che in certi settori ha causato il formarsi di paludi di pensiero maleficamente stagnanti, ad eccezion fatta dell’opera del sommo già citato Boccaccio, fortunatamente è stata sconfitta da un rinascimento culturale in asse con il profluire dei tempi moderni.
“La casa dell’amore”!
Titolo che adombra una realtà sociale spesso triste, spesso lieta, lacrimosa ma gaia, riflessiva ma scacciapensieri, colpevole ma libertaria, libertina ma virilmente formatrice, che sin dalla suburra di romano stampo classico in poi ha contribuito (la frase “non ogni male viene per nuocere” mi pare qui si adatti a pennello) a svezzare l’uomo dalla sua imberbe e irresoluta fanciullezza.
Titolo lungimirante e pragmatico, dunque, forse la prima coraggiosa apertura mentale di un scrittore cefaludese su Cefalù, autore che ha voluto prendere“il toro per le corna”, come si dice, focalizzando una dimensione di per sé certamente spinosa ma ineludibile comunque e trattandone con goliardica disinvoltura in modo da infrangere, così facendo, quel pruriginoso silenzio a cui si alludeva prima, penoso e soffocante, dilatato da anni di oscurantismo convenzionale imposto dalla più insipida moralità.
Il libro, recentemente licenziato alle stampe per i tipi delle Edizioni Billeci (2023) ed editato a cura dell’Archeologa Maria Teresa Rondinella, competente professionista di indubbia sincerità intellettuale, sin dal suo primo apparire ha suscitato nei più una spiccata curiosità.
Scritto in forma piana e scorrevole, semplice periodare che tanto rammemora l’idioma in uso nei libri scolastici sui quali abbiamo sudato i nostri primi fervori conoscitivi, accessibile, quindi, a tutti, financo all’uomo della strada, il racconto contestualizza quella, seppur discutibile, attività operante nella nostra città (allora piccolo paese) in un periodo storico particolare che assistette, in ambito nazionale, ad un cambiamento politico epocale: il passaggio dalla monarchia alla repubblica.
Stravolgimento culturale che ha portato la donna ad acquisire più ampi diritti civili sulla strada della sua riconosciuta equiparazione all’uomo.
E proprio questo è il particolare momento storico nostrano che focalizza il Nostro.
Di concerto, nel 1958, la legalità del fenomeno prostitutivo svolto nelle “case di piacere” o di “tolleranza” promulgata col regio decreto del 15 Febbraio del 1860 su proposta del conte di Cavour, dopo essere stata esaminata, valutata, dibattuta e trattata alla luce di animati convegni ed interrogazioni parlamentari, è venuta meno con la risaputa Legge Merlin.
Così il bordello legalizzato, attivo nei quasi cento anni della sua vigenza in Italia, con le sue attraenti “signorine”, con le sue pittoresche “maitresse”, con le sue periodiche “quindicine”, con i suoi profumati “salottini rossi riservati”, fenomeno che ha dato il là ad un’antologìa di autobiografie e testimonianze di prostitute, poderosa letteratura che di per sé rappresenta un importante spaccato della società nazionale dell’epoca, ha finito di esistere rimanendo nella memoria comune un lontano (nostalgico?) ricordo.
Lina Merlin, perseguendo i suoi buoni propositi, ha cancellato la poesìa (se di poesìa si può parlare) di un mondo che, se da un lato poteva rappresentare una degradazione della donna, dall’altro, è innegabile, assumeva un virile impegno formativo.
Tutti questi pensieri porta alla nostra ribalta mentale il racconto “La casa dell’amore” dell’amico Antonio Barracato.
Inoltre non bisogna dimenticare, e l’Autone ne rende ampio cenno nel testo, che il sesso praticato nei bordelli, con i regolari controlli medici a cui precauzionalmente venivano sottoposte le gaudiose dispensatrici del piacere al fine di preservare la salute degli utenti del mercimonio da possibili infezioni e malattie, era più che sicuro.
E qui, se mi si consente di dire la mia (sono riflessioni collaterali sempre ingeneratemi dal verace racconto di Antonio), secondo il mio modestissimo parere la chiusura delle case ha causato un peggioramento dello stato delle cose nel settore.
Infatti quell’attività erotica che tanti di noi, allora giovani, varò nel magma della vita, oggisi è in massima parte trasferita sulle pubbliche piazze e strade oltre che in private dimore, ampiamente disertando quei periodici controlli medici imprescindibili cui si faceva riferimento, che una volta, baluardo di sicurezza sanitaria, erano tassativamente di prammatica.
A non voler parlare, infine, anche di certi deprecabili atti di violenza, stupri e quant’altro, che da alcuni criminali esagitati, per mancanza di sfogo, vengono oggi perpetrati a danno della sicurezza pubblica che è patrimonio di civiltà.
Consentitemi, di grazia, ancora una volta l’analessi: il libro di Barracato, col suo riportare alla memoria una realtà storica che fu retaggio dei nostri padri e marginalmente nostra, compie anche un coraggioso atto di civismo perché induce ad una più matura valutazione obiettiva del tanto criticato fenomeno.
Qui, però, bisogna pur dirlo: Barracato non è stato il solo a cimentarsi in questa sua crociata divulgativa portata avanti con sereno spirito di indagine.
Egli è stato il primo cefaludese a farlo, questo si, ma a seguito di una lunga teoria di altri che, sia sul piano regionale che su quello internazionale, hanno autorevolmente affrontato il problema argomentandone in maniera esaustiva.
Ricordiamo a questo proposito (i primi che mi vengono a mente) Bernieri col suo“Veneri in strada” (io avrei titolato in “istrada”!), Buttafuoco, Adelmo Lo Cascio e il siciliano Camilleri.
A non voler sottacere, poi, che in passato molti eccelsi artisti, in tutte le discipline versati, sia esse letterarie che grafiche, ne hanno ampiamente dibattuto.
Come non citare fra i tanti, allora, Zola, Balzac, Maupassant, Dostoevskij, Tolstoj, Picasso, Van Gogh, Dumas figlio, Toulouse Lautrec e lo stesso già menzionato conterraneo Camilleri?
La schiera è nutrita; il che inequivocabilmente dimostra l’interesse unanime di tanti facoltosi verso il fenomeno che oggi ha coraggiosamente ripreso il Nostro.
L’autore, evocando tutto ciò che ha evocato nel testo in esame, e qui lo affermo senza leziosismi o impegni d’amicizia, né di maniera, ha messo in luce una realtà paesana sconosciuta ai giovani che ha, tuttavia, contrassegnato un’epoca.
Il testo, strutturalmente, s’incardina in una serie di storie di vita vissute.
Le facili ragazze si raccontano. Parlano col cliente, prima e dopo la prestazione. Anche i clienti interloquiscono con esse. Si creava, così, fra di loro un legame, seppure fittizio, che spesso sfociava in un feeling che nelle famiglie, se non del tutto sicuramente quasi, mancava.
Gli incontri avvenivano fra le complici mura della casa di via Fiore in Cefalù, nel periodo temporale che va dagli anni quaranta sino alla data della effettiva ufficiale sua chiusura legalmente statuita ed avvenuta, come sopra accennato, nel 1958.
Storie di donne, soprattutto, ma anche di uomini, giovani e non, titolati o meno, umanità eterogenea, variopinta e fluttuante, tutta convergente per necessità esistenziali nel medesimo luogo di consonanza ricreativa.
Barracato non è nuovo all’arte letteraria.
Da circa 10 anni a questa parte (prima, forse inconsapevolmente, covava nell’intimo, occultandole per timidezza, queste sue propensioni alla narrativa, alla poetica ed a tant’altro; dimensioni culturali che poi, di getto e prepotentemente, son venute fuori, ex abrupto, come una diga che s’infrange di colpo e l’acqua raccolta – vedi Longarone – precipita in massa a valle rovinando tutto, uomini e cose) è comparso nel panorama letterario nazionale raccogliendo plurimi ambìti consensi.
Fà, anche, parte di numerose accademie di pensiero nelle quali riveste importanti incarichi.
Ha dato alla luce (il termine mi pare improprio, mi sa più di sala parto che di creazione artistica; e neanche mi pare adatto l’usare quell’altro “ha sfornato”, mi sa di forno, di fornaio, sembra pur’esso un’espressione cruda, blasfema, sgraziata, incompatibile col concetto di creazione, di arte pura), o, meglio, ha licenziato alle stampe una congerie di scritti, in poesìa e in prosa, ha prodotto dei video, s’è distinto nell’arte della fotografia partecipando con buon esito a concorsi nazionali ed internazionali.
Ha scritto di tutto e su tutto: dalle riflessioni intimistiche sulla sua natura d’artista, scandagliando il suo precedente excursus esistenziale, quasi un apologo, a elaborazioni tematiche su fatti, situazioni e personaggi eterogenei.
Nell’attività poetica, assieme ad altra poetessa, Matranga, ha creato anche un metro lirico che ha denominato “cortopoesia”; ha fatto sorgere circoli letterari, ha indetto concorsi di poesìa, incontri culturali, convegni lessicali e quant’altro.
Un pigmalione in erba!
La lettura del testo, come ho già asserito, è piacevole; riporta indietro negli anni e fà rivivere quelle giovanili primarie esperienze e quelle pulsioni sconvolgenti, sempre vitali e presenti nella nostra memoria, che invariabilmente sfociavano nel sentimentalismo.
E’ un patrimonio storico che va mnemonicamente salvato, quello enunciato nel libro, perché è parte integrante della nostra formazione che non va dimenticata. Lo ricordiamo con un sorriso di nostalgico rimpianto come si possono ricordare i primi piacevoli turbamenti che ci hanno iniziato alla vita.
Diciamolo pure, spartanamente: il libro di Barracato ha l’imprescindibile merito di riportarci ad una, ahimé, perduta dimensione giovanile che oggi rappresenta una lontana, desiderabile seppur accorata, realtà.
Insignito di varie onorificenze accademiche, oggi all’Autore si potrebbe dire: bravo, bene, bis!
Giuseppe Maggiore