Cefalù (Pa) – Mio padre, passando a miglior vita, mi lasciò un immobile in questo Corso Ruggero. In tal luogo, a quel tempo, trovai una cassa piena di carte ingiallite e dall’apparenza macilente, rose dall’umidità e dai tarli, per non parlare delle molteplici defecazioni moschicide che ne orlavano i bordi; alle quali lì per lì non feci gran caso. Depositai questa cassa nel fondo di un magazzino e non vi pensai più.
Nello scorso inverno, in una giornata rigida e piovosa nella quale uscire non era consigliabile per evitare qualche imprevista infreddatura e non avendo granché da fare, cercando di occuparmi di qualcosa per non annoiarmi mi dedicai a vagliare il contenuto di questa cassa.
Conteneva dei documenti vari, atti notarili soprattutto, alcuni addirittura stilati su carta che diventava cenere a maneggiarla, sbiaditi scritti a penna con grafìe illeggibili, con vocaboli pieni di svolazzi e quant’altro e con date di redazione che partivano addirittura dal ‘600.
Spinto da un’estrema curiosità cominciai ad indagare sul loro contenuto tentando di interpretarne geroglifici, ghirigori, abbreviazioni e stili. Sino all’800 i testi erano scritti in latino, un latino curialesco; dall’Ottocento in poi solo in lingua con qualche richiamo all’idioma di provenienza.
La maggior parte dei documenti riguardava testamenti. Ogni tanto saltava fuori pure qualche lettera e qualche poesìa; ne ricordo particolarmente una, scritta chissà da chi, se da un padre o da una madre, o da un nonno o da una zia, rivolta ad un bambino precocemente scomparso. Triste, veramente.
Chiamato da mia moglie ad altre incombenze, lasciai di nuovo lì il tutto e lo trascurai per qualche altro mese.
In una successiva giornata piovosa vi ritornai all’attacco e continuai ad indagare fra i fogli. Mi venne in mano un lettera, più componimento lirico che epistola, dall’imprevedibile dedica “…A te…”
Mi incuriosì l’originalità dell’intestazione e pure il colore violaceo dell’inchiostro.
I miei occhi corsero subito alla firma: in bella grafìa, in calce, c’era solo un nome, “…Violetta…”, e portava la data del 15 Luglio del 1817.
Non mancai di leggerla o, meglio, di interpretarla e qui appresso ne trascrivo il contenuto modificando certe espressioni lessicali e periodali dovute più allo stile di un’epoca che all’oscurantismo di un periodo storico obsoleto, cercando nel contempo di renderne al meglio il contenuto ed il suo palese accorato tono:
“…A te…
Ci fu un tempo in cui ti chiesi di poterti parlare guardandoti negli occhi…
Ci fu un tempo in cui ti chiamai mio principe…
Ci fu un tempo in cui ti dichiarai che eri molto importante per me…
Ci fu un tempo in cui ti confessai che, pur avendo io il carattere di una volpe, tu mi avevi addomesticata, vinta, soggiogata…
Ci fu un tempo in cui fui gelosa di te per via di una tua amica forestiera che veniva spesso nel nostro paese a trovarti e con la quale avevi scambiato un bacio…o forse più…
Ci fu un tempo in cui mi interessavo alle tue cose ed ai tuoi problemi…
Ci fu un tempo in cui ti scrissi di me rivelandoti le mie più intime pulsioni familiari…
Ci fu un tempo in cui, essendo stato tu a lasciarmi, ti chiesi di consentirmi ancora un periodo per potermi disintossicare di te…
Ora, quei tempi sono irrimediabilmente trascorsi ed io stessa, sola nella dimensione della mia solitudine che cerco di riempire con svariati interessi, mi sento triste e piena di rimorsi per essermi lasciata andare in un particolare momento di debolezza e di averti dato l’illusione che ti corrispondevo…
Vedi, ora voglio dirti la verità… Io non ho mai cessato di avere rapporti con mio marito…se me ne sono quasi distaccata per il periodo del nostro incontro è stato esclusivamente per le solite incomprensioni di base che non mancano mai in una coppia e perché il sentirmi imprevedibilmente corteggiata mi ha irretita e fatto travisare i miei veri sentimenti e i miei doveri…
Ti ho lasciato…si, ed ora mi rendo conto che non avrei mai dovuto incominciare un rapporto con te…Il nostro è stato un contatto impossibile…fortuito…sbagliato…abbiamo creduto di poter trovare un punto d’incontro…ma entrambi sappiamo benissimo che due linee parallele non s’incontrano mai…
E noi, che tu lo voglia o no, rappresentiamo due linee parallele…esistenzialmente all’antipodo…come l’alba e il tramonto…
Debbo pur confessartelo…io non sono innamorata di te…E’ stata più curiosità che afflato, la mia…Mi hai interessato, questo si, ma amore vero e proprio no…
Non so cosa tu penserai di me, ma oggi ti sento vicino, se vuoi, soltanto come amico e…nient’altro…
Capiscimi e perdonami…
…Violetta…”
Cefalù, 2 Luglio 1817 ”
n.b.:
Mi chiedo: chi fu che la scrisse? Chi è questa Violetta? Nella mia prosapia non ricorre tal nome; quindi, verosimilmente, sarà stata qualche estranea infatuata di qualche mio avo. E chi era mai costui al quale è stata inviata questa lettera, per certi versi crudele ma spartanamente sincera, trattenuta prima nel segreto di qualche vetusto cassetto ed ora improvvisamente balzata fuori alla luce a causa della bizzarrìa del caso e della mia inguaribile curiosità?
Mistero!
Ho recepito il respiro di un’anima in pena rosa da un rimorso; anima che, tuttavia, ha riconosciuto il suo errore ed ha avuto la forza di rompere un legame colpevole prima ancora che si potesse consolidare e che ha avuto il buon senso di ritornare alla sua vita ed ai suoi familiari affetti…
Ho violato un segreto che il tempo non si sarebbe dovuto lasciar scappare mai…
E, quel ch’è peggio, l’ho propalato…
Non me ne voglia la de cuius …
Giuseppe Maggiore