Omelia inizio anno pastorale arcivescovo di Monreale

Monreale (PA) – Omelia inizio anno pastorale arcivescovo di Monreale, Gualtiero Isacchi.

Omelia Inizio anno pastorale 2022 (1Cor 12,4-27; Mc 16, 9-18).

«Carissimi sacerdoti, fratelli e sorelle, vi saluto utilizzando le parole di San Paolo: “Chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, alla Chiesa di Dio che è in Monreale, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!” (1Cor 1, 1-3).

Iniziamo un nuovo anno invocando grazia e pace. La novità più evidente di questo nuovo anno pastorale credo sia il vescovo. Da lui ci si aspetterebbe una lettera pastorale. Sto conoscendo la Diocesi e come ho avuto modo di ripetere più volte sono affascinato dalla bellezza di questo presbiterio, di questo popolo e di questo territorio; noto diverse contraddizioni e sento il bisogno di comprendere meglio. Insieme a voi vorrei comprendere come Dio ci sta chiedendo di abitare questa terra e questo tempo.

Vorrei quest’oggi, a partire dalle letture proclamate, indicare due domande e tre parole sui cui compiere i primi passi di questo nuovo anno pastorale. Il tutto dentro l’orizzonte del cammino sinodale della Chiesa che, proponendoci di attivare i Cantieri di Betania, ci invita a restare in ascolto. L’Arcidiocesi di Monreale sia Chiesa in ascolto.

Una prima considerazione: l’anno pastorale

Iniziamo un Anno pastorale. Questa espressione, anno pastorale, ci fa pensare all’insieme di proposte, iniziative, attività e percorsi realizzati dalla diocesi, dalle parrocchie, dagli Istituti religiosi e da tutte le realtà che compongono il volto bello della Chiesa diocesana. Penso ad esempio alla catechesi, alla preparazione al matrimonio, all’insegnamento della religione nelle scuole, ai convegni, ai corsi di formazione, alla scuola di Teologia di base, alla vita in seminario dei nostri giovani – quest’anno due nuovi giovani hanno iniziato il percorso propedeutico, per loro e per tutti chiedo la preghiera –, penso anche al servizio delle nostre Caritas, ai servizi di accoglienza e di ascolto di situazioni delicate, al servizio di assistenza ai malati nelle case e negli ospedali… Insomma dire “anno pastorale” significa dire l’agire della Chiesa.

Non dimentichiamo però che Anno pastorale dice un “modo” di vivere il tempo. L’anno è per noi il tempo della “pastorale” non solo delle “attività pastorali”. È il tempo in cui realizzare il mandato che ci è stato consegnato da Gesù: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Ecco che cosa è un anno pastorale: è il tempo in cui proclamare l’εὐαγγέλιον, cioè la bella notizia ad ogni creatura.

Da questa considerazione sorge una prima domanda di verifica: quello che noi “facciamo” è proclamazione della bella notizia per ogni creatura? Le nostre liturgie, la nostra catechesi, i percorsi, le attività… sono proclamazione di una bella notizia per noi e per i destinatari?

Dobbiamo riconoscere che alle volte facciamo fatica! Alle volte le proposte ecclesiali sono avvertite come un peso anche da noi stessi. Per alcuni non sono una bella notizia ma un dazio da pagare per accedere ad un sacramento o ad un élite. Lo ripeto: non è sempre così, ma a tutti chiedo di prosi seriamente questa domanda.

Una seconda considerazione: la fatica di credere

La conclusione del vangelo di Marco ci ricorda che non è facile credere nel Risorto. Carissimi fratelli nel sacerdozio, cari operatori pastorali, annunciare Cristo risorto, non fa sbocciare immediatamente la fede, ma il dubbio! «Non credettero» ripete come un ritornello l’evangelista Marco. Nei racconti evangelici di risurrezione il dubbio serpeggia nella mente e nel cuore del discepolo finanche alla presenza del Risorto.

Non è così anche per noi? Non dimentichiamolo: il credere non è effetto di una folgorazione, ma frutto di un percorso. Lo stesso Paolo, dopo ciò che accadde sulla via di Damasco, ha avuto bisogno di tempo e di accompagnatori per comprendere il significato e le conseguenze di quanto vissuto. Dentro questo cammino mistagogico egli ha potuto scegliere di vivere da apostolo delle genti.

Ciò che sorprende, poi, è che Gesù affida proprio a quei discepoli increduli il compito di annunciare la bella notizia al mondo intero. Come allora, così oggi anche a noi è affidato il ministero dell’annuncio! Dobbiamo sentire la responsabilità e l’urgenza dell’annuncio! Non possiamo starcene tranquilli, non possiamo tacere: il nostro silenzio appare come silenzio di Dio. Lui è Parola, noi siamo chiamati ad essere voce. Una parola senza voce non è udibile, una voce senza parola è insignificante.

Ecco una seconda domanda di verifica: stiamo annunciando la Parola che è Bella Notizia o ci accontentiamo di essere voce senza parola che propone iniziative che occupano il tempo senza riempire la vita?

Tre impegni

Vorrei, infine, consegnarvi la metafora del corpo che Paolo propone alla comunità di Corinto. Non è questo il luogo per approfondire il testo, ma chiedo a voi comunità parrocchiali, religiose e realtà ecclesiali tutte di fare di questa pagina motivo di studio, preghiera, meditazione e contemplazione.

In questo testo, l’unità e la diversità dei doni dello Spirito sono illustrati da Paolo attraverso la metafora del corpo umano e delle membra. L’organismo umano si presenta in due dimensioni essenziali: l’unità e la pluralità. L’unico corpo è formato da molte membra e le molte membra costituiscono l’unico corpo.

Ma di quale corpo parliamo? Paolo scrive: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo». Paolo sembra saltare un passaggio. Dove ci si attenderebbe: «Così pure la Chiesa», noi troviamo «Così anche Cristo». Egli contempla la persona di Cristo e vede in essa tutta l’ecclesiologia. Non dimentichiamo questo passaggio: la Chiesa è Cristo. La Diocesi di Monreale è Cristo a noi il compito di mostrarlo nella sua bellezza e nella sua misericordia.

Tenendo conto di questa considerazione generale, da questo brano vorrei ricavare tre parole che unitamente alle due domande precedenti, divengano un impegno comune verso cui tendere in questo inizio anno.

Umiltà. Ciascuno di noi è parte di un corpo che non può funzionare senza le altre membra. Viviamo il nostro servizio tenendo presente sempre la totalità del corpo: non è sufficiente che io faccia la mia parte, non poso stare tranquillo se le mie attività funzionano. Per il benessere del corpo è necessario che tutti siano messi in grado di svolgere la loro funzione. Nessuno di noi, nemmeno il vescovo, è la parte più importante. Abbiamo semplicemente compiti diversi: manteniamoci liberi dai ruoli e dai titoli. Facciamo attenzione a non assolutizzare la nostra esperienza di fede, di preghiera o di servizio ed anche a non imporla agli altri.

Condivisione. L’umiltà richiede che ciascuno si impegni a conoscere gli altri, facendosi conoscere dagli altri. La consapevolezza di non bastare a noi stessi ci deve far intendere il nostro servizio dono gratuito per il funzionamento del servizio degli altri. C’è un sentimento, che nei vocabolari viene definito “malanimo”, che voi mi dite essere radicato nel nostro popolo: è l’invidia, “semo cristiani miriusi”, così mi avete detto. Nella Chiesa Corpo di Cristo non può esserci spazio per l’invidia. È la prima lotta che vi chiedo di combattere utilizzando le armi della stima: «gareggiate nello stimarvi a vicenda». Senza questa stima non può esserci condivisone.

Cura. Non è sufficiente fare insieme e collaborare, anche se questo ci dà gioia, direbbe Gesù “se fate questo, cosa fate di straordinario, non fanno così anche i pagani?” (Mt 5, 46-48). Il cristiano è colui che si prende cura dei fratelli e delle sorelle, Paolo scrive: «le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto». Eliminiamo dal nostro vocabolario “non mi interessa”! Tutti e tutto mi appartiene: i fratelli, le sorelle, il creato… Dio me lo ha affidato. Le difficoltà e le gioia dell’altro mi appartengono, fanno parte di me.

Conclusione.

Carissimi fratelli e sorelle, queste due domande e queste tre parole siano i primi passi del nuovo anno pastorale, siano impegno prima personale, ma poi anche comunitario. A voi il compito di dare loro concretezza e di restituire al vescovo le fatiche e le gioie a partire dalle quali definiremo il volto di Chiesa che siamo chiamati ad incarnare e mostrare.

Affidiamo questo cammino sinodale alla protezione di San Castrense perché possiamo essere capaci di annunciare la bella notizia anche nelle difficoltà e nelle avversità. Affidiamoci pure a Maria, Madonna del popolo, perché ci insegni a vivere l’umiltà, la condivisone e la cura verso Gesù ed ogni persona che incontriamo.

Buon cammino».

Giuseppe Longo

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