Roma – Per la prima volta a Roma “San Francesco contempla un teschio” del pittore spagnolo Francisco de Zurbarán. Grazie al prestito dal Saint Louis Art Museum l’opera sarà esposta dal 16 marzo nella Sala Santa Petronilla dei Musei Capitolini tra le tele di Caravaggio e Velázquez.
Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio, 1 – Roma
Cenni biografici su Francisco de Zurbarán (Fuente de Cantos, 1598 – Madrid, 1664)
«Originario della regione dell’Estremadura, Zurbarán si formò a Siviglia presso il pittore poco noto Pedro Díaz de Villanueva entrando però in contatto anche con il più celebre Francisco Pacheco e il suo giovane allievo Diego Velázquez. Nel 1618 si stabilisce a Llrena (Badajoz) dove lavora per chiese e conventi e dove si sposa due volte. Nel 1626 ottiene un importante incarico dai domenicani di Siviglia, città nella quale si trasferirà definitivamente nel 1629 invitato dalle autorità cittadine.
Nel capoluogo dell’Andalusia lavorò per le maggiori comunità monastiche realizzando i suoi primi capolavori, tra cui il monumentale e iperrealistico Cristo crocifisso (1627, Art Institute of Chicago), i celebri quadri con episodi della Vita di san Pietro Nolasco (1629, Museo del Prado), i ritratti dei frati dell’ordine della Mercede (Madrid, Accademia di San Fernando) e la solenne tela con l’Apoteosi di san Tommaso d’Aquino (1631, Siviglia, Museo de Bellas Artes). In queste opere Zurbarán si rivela già pittore naturalista e poetico interprete dell’atmosfera spirituale della vita conventuale lontana da qualsiasi vanità e celebrazione.
Il tenebrismo di matrice caravaggesca si fonde con il suo cromatismo rendendo reali i soggetti per effetto della luce, veicolo del divino, che illumina e scolpisce come un’accetta i suoi modelli. Nel 1634 su iniziativa di Velázquez è chiamato a Madrid per partecipare alla decorazione del palazzo del Buen Retiro per il quale esegue dieci grandi quadri a soggetto mitologico. Tornato a Siviglia con il titolo di «pittore del re», realizza il ciclo pittorico per la Certosa di Jerez, oggi smembrato (1637-39, Musei di Cadice e Grenoble, Metropolitan Museum) e quello ancora in situ del monastero geronimita di Guadalupe (1638-39), ritenuti tra le opere più valide della sua produzione matura per l’interpretazione fortemente realistica del misticismo ispanico più profondo.
Alla fiorente attività del suo laboratorio si affiancano però diverse avversità nella sfera privata: nel 1639 muore la seconda moglie e dieci anni dopo perde anche il figlio collaboratore Juan colpito dalla peste del 1649. Il decennio successivo vede il mesto tramonto della sua fama sotto l’imperversare a Siviglia della nuova pittura dolciastra di Murillo. Zurbarán, concentra quindi la sua attività su una serie di dipinti destinati al fiorente commercio con l’America dove le sue pitture erano ancora particolarmente richieste.
Dal 1568 fino alla morte nel 1664 risiederà a Madrid con la terza moglie conducendo una vita modesta e dedicandosi a quadri di piccole dimensioni e di devozione privata. Sono gli anni in cui cercherà di adeguarsi alle nuove mode pittori che addolcendo le forme e imprimendo alle sue tele un cromatismo atmosferico assimilato da Velázquez, senza però mai rinunciare alla sua monumentale severità.
Superbe rimangono ancora oggi le sue nature morte (bodegones), tanto ammirate da Cezanne e Morandi, per la maestria con cui seppe rendere potentemente reali gli oggetti: vasi, frutti, fiori o tessuti, riprodotti come entità fisiche e allo stesso tempo evidenze ottiche astratte. Basti a titolo di esempio l’iperrealistica Natura morta con piatto di cedri, cesto di arancia e tazza con rosa della Norton Simon Foundation di Pasadena».
Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (1599-1660)Ritratto di Juan de Córdoba, 1650 ca. olio su tela, cm 67 x 50 Roma Musei Capitolini, inv. PC 62
Il ritratto raffigura l’agente della corona spagnola Juan de Córdoba, braccio destro di Velázquez nel secondo soggiorno romano dell’artista (1649-1651). Il dipinto fu verosimilmente realizzato in omaggio al suo fidato amico, come peraltro lo sciolto trattamento pittorico e lo stato quasi di abbozzo della veste inducono a pensare. Guardando il volto dell’uomo si rimane catturati dallo sguardo che il personaggio ci rivolge. Di lui Velázquez ci restituisce non solo la veridicità delle sembianze ma la sua umanità, i suoi pensieri più intimi, la sua individualità. Un realismo penetrante e allo stesso tempo romantico, che mette a nudo la persona e dove forma e sembianze non sono definite ma solo suggerite con una pennellata sciolta e veloce in cui anche i contorni sembrano dissolversi nella vibrazione del respiro dell’uomo.
Giuseppe Longo